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domenica 14 agosto 2022

La pernice di Brugel

 Il quadro è conosciuto con il titolo di “la caduta di Icaro”, opera di Brugel, conservato al Museo Reale di Belle arti in Belgio.


Per trovare Icaro bisogna osservare bene, prima di scorgere, in fondo verso l’angolo destro, due gambe ed una mano appartenenti ad un giovane corpo che sta annaspando in un tratto di mare su cui svolazzano le piume appartenute alle sue ali.



 Il mito è noto: Icaro, figlio di Dedalo, famoso architetto ed inventore, stava fuggendo con il padre dall’isola di Creta con ali costruite di piume tenute insieme da cera. Ignorò l’avvertimento del padre, si avvicinò troppo al sole e la cera si sciolse. Così Icaro annegò è così lo dipinge Brugel. Icaro annega e tutti sembrano ignorare il suo dramma, tranne un animale, una specie di grosso pollastro che osserva la scena compiaciuto: si tratta di una starna o pernice grigia.




Ma cosa ci fa una pernice nel quadro di Brugel?


Brugel racconta un mito, ripreso dalle  Metamorfosi di Ovidio. Conosciamo Dedalo per essere stato uno straordinario architetto ed inventore. Fu suo il Labirinto, ancora oggi chiamato con un sinonimo che è il nome del suo inventore, dedalo. Ma a pochi è noto che Dedalo non era un uomo di gran morale. Ovidio ci racconta che  sua sorella gli affidò il figlio dodicenne, affinché lo istruisse, diremmo oggi che aveva mandato il ragazzo “a bottega” . Il ragazzo, chiamato Calo o Talo, ma conosciuto come Perdice, era molto talentuoso: si dice che osservando la lisca di un pesce avesse inventato la sega, poi aveva unito due asticelle di legno, cosicché una stando ferma e l’altra muovendosi, tracciava un cerchio, praticamente il compasso. Lo zio Dedalo, invece di sostenere il fanciullo, ne divenne geloso e un giorno, passeggiando vicino alla rupe di Atene, lo spinse giù, fingendo un incidente. Atena, dea protettrice degli uomini di ingegno, si accorse del gesto e trasformò il giovane in un uccello prima che potesse raggiungere il suolo. La pernice, appunto, in latino Perdix.

Ma gli ateniesi non erano convinti dell’incidente e mandarono Dedalo a processo. Le cose si mettevano male per lui, così fuggì e riparò a Creta, alla corte del re Minosse. Il quale aveva una moglie, Pasifae che si era innamorata di un toro (strani gusti). Per consentire a Pasifae di incontrare il toro, Dedalo costruì una giovenca in legno. Dall’unione tra Pasifae e il toro nacque il Minotauro, il quale oltre ad essere mostruoso, amava cibarsi di carne umana, fresca. Per impedirgli di sbranare chiunque incontrasse, il re Minosse chiese a Dedalo di costruire per il Minotauro una casa che lo lasciasse libero di muoversi, ma gli impedisse anche di nuocere agli altri. Fu così che Dedalo inventò il labirinto, e fu così che duemila anni dopo, stuoli di psicologi e psicoanalisti versassero fiumi di inchiostro sul significato del labirinto, sulla psiche e sugli istinti bestiali del Minotauro, prigioniero della sua mente malata oltre che del labirinto.
Ma il re Minosse sapeva che Dedalo non era uno “stinco di santo”. Per impedirgli di andare a vendere le sue capacità a qualche nemico, gli impedì di lasciare l’isola e per non farlo sentire troppo solo, mandò a prendere suo figlio. Ma Dedalo voleva essere grande e libero, così concepì la rocambolesca fuga che costò la vita al figlio. 
Tanto diversi erano i due cugini: Icaro smanioso di andare in alto, tanto da bruciarsi le ali, Perdice, la pernice, invece volava basso. Ovidio ci dice che ciò era legato al ricordo di essere caduto da umano, dalla rupe, tuttavia il volare basso era una caratteristica del giovane Perdice anche prima di diventare “la pernice”: a lui piaceva studiare e applicare la scienza, non cercava la fama, non desiderava stare in alto.
Brugel ci ricorda tutto questo con una semplice immagine che pone la pernice in diretto raffronto con Icaro: Icaro annega a causa della sua stessa arroganza,  mentre la pernice osserva la scena compiaciuta.
Dice ancora Ovidio, che quando Dedalo tumulò il figlio Icaro, si udì un uccello trillare di gioia: la pernice.

venerdì 22 luglio 2022

 Un gatto nascosto

Il gatto è quello di Olympia, famoso quadro dipinto da Manet, conservato al Musé d’Orsay.

L’opera fu dipinta da Manet dopo “colazione sull’erba”, nel 1863. Accettato per l’esposizione al Salon di Parigi, fu bersagliato di critiche.

Manet ritrae una prostituta. Molti segni sono infatti inequivocabili nell’identificare la protagonista come tale: innanzitutto il nome Olympia, molto diffuso fra le prostitute di rango, il collarino nero, le ciabattine, una calzata e l’altra abbandonata, la serva nera con il mazzo di fiori alle spalle. Difatti le donne bianche rifiutavano di prestare servizio presso le prostitute, ritenendo che in qualche modo la loro reputazione ne venisse contagiata.




Ma perché le critiche? Eppure di donne nude distese ne erano state già dipinte molte. Manet dichiarò di essersi ispirato addirittura alla Venere di Tiziano



Ma Tiziano aveva dipinto innanzitutto una Dea, in posa sensuale, simbolo dell’amore;  il cagnolino addormentato ai piedi sottolinea il richiamo all’amore coniugale. Il soggetto di Manet è invece provocatorio: la sua protagonista è una prostituta, che osa puntare lo sguardo sul visitatore, in maniera quasi arrogante 

E ai suoi piedi c’è un gatto, con la coda dritta, simbolo di indipendenza ed ulteriore richiamo all’erotismo. Quel gatto “leggendario” e “buffissimo” che Zola, amico di Manet, invitava a cercare nel quadro per invogliare i suoi concittadini ad andare ad osservare il dipinto.


Ma chi era la donna dipinta da Manet?

Si chiamava Victorine Meurent. Era nata nel 1844, 12 anni dopo Manet. Era modella, pittrice, suonatrice di chitarra. Si conserva un suo autoritratto con una palma, pervenuto a noi con il titolo di “domenica delle palme”

Non era la prima volta che Manet la ritraeva, è ancora lei infatti la donna nuda tra i due giovani ben vestiti in “colazione sull’erba”. Tuttavia le è sempre stata attribuita una fama non acclarata di prostituta, tant’è che diversi libri di arte riportano la falsa notizia che morì sola ed alcolizzata. Ma le cose non stanno così: morì all’età di 83 anni, a Parigi, dove si era trasferita a vivere con una amica insegnante. Non avendo eredi, alla sua morte il suo patrimonio artistico fu disperso ed in larga parte andò distrutto. Resta solo quel suo delicato autoritratto con la palma in mano.


mercoledì 1 giugno 2022

Vita sull’Arno

 L’Alzaia di Telemaco Signorini.





Il quadro, piuttosto imponente, cm 54 x 173,  si trova in una collezione privata ed è raramente esposto al pubblico.

Ritrae alcuni uomini sulla riva dell’Arno mentre trascinano un peso insopportabile, il loro passo è lento e affaticato, la corda che trascina il peso affonda nelle loro carni. Sulla sinistra un signore ben vestito e una bambina, guardano qualcosa altrove, ingnorando la fatica bestiale degli uomini; in mezzo a loro quasi a dividere le due realtà, un cane nero e piccolo abbaia a qualcosa di invisibile.

L’Alzaia

Il quadro è conosciuto come “L’Alzaia”. Protagonista nascosta della scena è una chiatta, una grossa imbarcazione che gli uomini, chiamati “bardotti”, denominazione simile a quella degli animali da tiro parenti dei muli, trascinano sulle rive del fiume Arno. L’Alzaia è la corda che serve a trainare la barca, ma anche il sentiero che i bardotti percorrono e che, secondo editti dell’epoca, doveva essere mantenuto sempre libero da ogni ostacolo, soprattutto dalla vegetazione per consentire il traino delle imbarcazioni lungo il fiume. L’operazione serviva tanto a tirare in secca le imbarcazioni, chiamate navicelli, per eseguirne la manutenzione, quanto e più spesso, per  superare ostacoli nella navigazione costituiti da banchi di sabbia, specialmente quando, durante la stagione più calda, il livello del fiume scendeva.

Scene di ordinaria vita fluviale quando l’Arno faceva parte di un sistema di idrovie e quando sulle sue rive ben pulite e curate fiorivano molte attività e commerci che incrementavano l’economia della città di Firenze, prima che uno stuolo di pseudo-ambientalisti si ostinasse a propagandare quella rinaturalizzazione delle rive del fiume che oggi molto assomiglia ad un degradato stato di abbandono.

La scena si svolge vicino alle Cascine, sullo sfondo si intravede uno dei ponti sull’Arno, curiosamente simile all’attuale Ponte all’Indiano, troppo recente per essere stato davvero dipinto da Telemaco Signorini.




L’autore

Telemaco Signorini era nato a Firenze nel 1835 e qui vi morì nel 1901. Figlio d’arte, il padre Giovanni era infatti un famoso vedutista del Granducato toscano, fu un acclamato esponente del movimento “macchiaiolo”.

Il quadro è stato dipinto nel 1864, quando Telemaco era quasi trentenne e già un riconosciuto artista. Dominano i colori bianchi, i verdi e l’ocra   su una stessa scala tonale che sottolinea la drammaticità della scena. Il cielo estivo azzurrino e libero da nubi,  esalta le figure in primo piano che sembrano emergere come fossero scolpite. Uno degli uomini sembra rivolto verso l’osservatore e quindi verso di noi quasi a voler richiamare l’attenzione sullo sforzo fisico.

Molto si è detto su quest’opera come un manifesto di denuncia politica da parte dell’autore per lo sfruttamento di questi poveri lavoratori, una sorta di “quarto stato”  del Signorini.

C’è da dire che questa presunta denuncia politica è probabilmente estranea all’intenzione dell’autore: infatti all’epoca tutto ciò che si muoveva sull’Arno era di proprietà degli stessi barcaioli, quindi non c’era né sfruttamento, né schiavizzazione. I bardotti erano aiutanti del proprietario e spesso suoi familiari stretti. 

Non si vuole negare la fatica umana del traino con l’alzaia, ma ridimensionare il suo inquadramento ideologizzato. L’autore non voleva denunciare alcunché,  si è semplicemente limitato a registrare e a descrivere una delle tante scene di lavoro allora osservabili sull’Arno, così comuni da non destare attrazione, come pare voler significare l’uomo sulla sinistra, rivolto altrove. 










martedì 26 aprile 2022

Interni di solitudine

 Interno con una donna di spalle. L’autore è Wilhelm Hammershøi, l’opera è stata dipinta nel 1903 e si trova al Randers Museum of Art.

La protagonista è una donna vestita di nero con un vassoio argentato sotto il braccio e la testa reclinata verso destra. L’interno dell’appartamento è scarno e l’unico elemento che in qualche modo lo personalizza, è il contenitore in ceramica sul mobile a sinistra.

Un raggio di luce illumina la nuca della donna e crea un contrasto tra la pelle chiara e l’abito nero,  il cui orlo leggermente abbassato sul collo accentua la delicatezza della postura. La scena è ambientata nell’appartamento dello stesso autore in Strandgade, a Copenaghen











L’autore

Wilhelm Hammershøi nacque a Copenaghen nel 1864 e qui morì nel 1916 a soli 52 anni, per un cancro alla gola.

Talento precoce, ebbe come maestro Christen Kierkegaard, fratello del famoso filosofo Soren Kierkegaard.

Nel 1891 sposò Ida Ilsted, di 5 anni più giovane, sorella  del pittore e amico di infanzia Peter Ilsted. 

Hammershøi è un pittore poco noto fuori dalla Danimarca, è divenuto popolare solo in tempi recenti per alcune retrospettive organizzate in vari paesi europei e anche in Italia.

La sua tavolozza cromatica è limitata: predominano i grigi e i toni desaturati, non vi sono sbalzi cromatici, c’è una grande attenzione alla luce e le scene sono solitamente angoli del suo appartamento. Spesso in questi ambienti minimalisti viene ritratta la moglie Ida, sempre in rigoroso abito nero e quasi sempre di spalle. Si dice che il pittore preferisse ritrarla di spalle perché Ida soffriva di depressione e il suo volto era malinconico e afflitto.






Gli interni

Gli interni dipinti da Hammershøi sono molto semplici, minimalisti, tanto da ricordare gli arredi di un noto mobilificio scandinavo; per la scelta di dipingere interni di appartamenti, è stato talvolta accostato a Vermeer

Vermeer, lezioni di musica

Vermeer, donna che legge una lettera


Anche Vermeer infatti era solito dipingere stanze in cui donne venivano ritratte in atteggiamenti quotidiani. Tuttavia gli interni di Vermeer vengono ravvivati dalle azioni delle donne, quegli spazi raccontano una storia, mentre quelli di Hamnershøi fanno solo da palcoscenico alla solitudine: i pensieri che impegnano la mente di Ida sono un dialogo interiore dal quale chiunque è escluso.

giovedì 21 aprile 2022

L’italiana di Van Gogh

 Van Gogh la ritrae in una opera di piccole dimensioni, circa 30x40cm conservata al Van Gogh Museum di Amsterdam.



Lei è Agostina Segatori, proprietaria del Café Le Tambourin, che si trovava al numero 62 del Boulevard di Clichy nel quartiere di Montmartre a Parigi ed era così chiamato per i tipici tavoli a forma di tamburello.
Van Gogh la ritrae nel 1887, seduta ad un tavolo del suo locale. La donna fuma una sigaretta, atteggiamento insolito in una donna allora come adesso e ha davanti a sè un boccale di birra poggiato su due piattini ciò vuol dire che è già al secondo boccale. Vicino a sè un frivolo ombrellino da sole sembra ricordare tempi passati.
Alle sue spalle, sullo sfondo, si scorgono delle stampe di soggetti giapponesi. Si tratta di una raccolta di Van Gogh, appassionato di soggetti artistici giapponesi, che organizzò una mostra proprio nel locale della Segatori.
La donna ha una espressione solitaria, disillusa, come distaccata: di lì a poco infatti il locale fallirà e da questo dissesto finanziario Agostina non si riprenderà mai più. Morirá a Parigi, sola e malata,  nel 1910.
Si è detto che tra Vincent, assiduo frequentatore del locale tanto da organizzarvi la mostra delle sue stampe che risultò un vero flop, e Agostina, vi fosse un legame sentimentale. Vincent ne parla in qualche lettera al fratello Theo, in più, questo non è l’unico ritratto di Agostina fatto da  Van Gogh, che la ritrasse anche  più volte nuda, fatto non insolito per una che di mestiere faceva anche la modella.  Di certo tra i due nacque una profonda amicizia, proprio per quel comune sentirsi disillusi verso le proprie esistenze.
L’ italiana - Vincent Van Gogh  - musee d’Orsay


Ma chi era Agostina Segatori?

Si sa che era nata  vicino ad Ancona, nelle Marche. Donna autonoma e molto volitiva, per motivi ignoti, era approdata a Parigi dove aveva fatto la modella e la prostituta.
Ma non si era abbandonata ad un destino che pareva segnato. Aveva messo da parte i suoi guadagni e a Parigi aveva aperto il Cafè LeTambourin dove era entrata in contatto con molti artisti come Corot, Manet, Dantan, per i quali aveva fatto da modella.
 Bella, di una bellezza tipicamente mediterranea, qui è ritratta da Corot, nel 1866, poco dopo il suo arrivo a Parigi e prima, pare, di avere un figlio dal pittore Dantan, poi legittimato da quello che, stando alle carte, divenne suo marito, Pierre Gustave Moriére.



lunedì 7 febbraio 2022

Streghe e caproni

 Il quadro è conosciuto come “il grande caprone” o “il Sabba”. Si tratta di una pittura ad olio di piccole dimensioni, 30x40 cm circa, dipinta da Francisco Goya fra il 1797 e il 1798 e conservato al Museo Lazaro Galdiano di Madrid.



Al centro del quadro campeggia un grande caprone seduto con rami di quercia intrecciati tra le lunghe corna, simbologia di Satana. Il caprone è circondato da un gruppo di donne piuttosto inquietante: si vedono bambini paffuti ed altri sceletrici, cadaveri di bambini appesi ad un’asta sulla spalla di una anziana donna e sulla sinistra, ad illuminare la scena, la luna a mezza falce.

Il quadro faceva parte di una serie destinata alla residenza di campagna dei duchi di Osuna, committenti di Goya che ritraeva credenze popolari fra cui i sabba delle streghe così come venivano descritti dalle tradizioni dell’epoca.

L’autore e il contesto

Francisco de Goya fu un pittore spagnolo vissuto fra il 1700 e il 1800; pittore di corte del re di Spagna, è ritenuto un anticipatore del simbolismo. Per dare una corretta interpretazione del quadro di Goya sulle streghe dobbiamo dire che ci troviamo in un’epoca in cui da pochi decenni  si erano conclusi i grossi processi alle streghe, soprattutto in Spagna, ed in cui si stavano affermando, tra i più colti, le idee illuministiche che pian piano soppiantavano le retrive superstizioni campagnole.

Per comprendere meglio l’opera, occorre rammentare come la figura della strega fosse ancora circondata da un’aura sinistra: così come riportavano gli atti dei processi dell’Inquisizione, il Tribunale ecclesiastico, la strega era una donna per lo più di brutto aspetto, dedita ai sortilegi che spesso colpivano i bambini, e adoratrice del demonio, solitamente raffigurato come un caprone, solo perché identificato con le divinità Silvestri (Pan ad esempio), soppiantate dal  cristianesimo, ma ancora adorate nelle campagne. In più, le streghe erano spesso “guaritrici” che sapevano curare e curarsi con piante ed erbe, ma il cui sapere spesso si scontrava con la boria di medici professionisti di una scienza imperfetta, inesatta, molto appesantita da credenze non provate e, occorre sottolinearlo, categoria tutta al maschile e misogina.

Il quadro

L’ interpretazione più accreditata è quella di un gruppo di streghe che offre sacrifici di bambini a Satana in veste di caprone: le streghe, a quei tempi, si pensava mangiassero bambini. Tuttavia, un esame più attento fa  trasparire una diversa lettura.

Il caprone, Dio Pan, ha rami di quercia intrecciati tra le corna, simbolo di longevità e forza. Sulla scena domina la luna a falce, simbolo della dea Diana, il cui culto continuava a sopravvivere tra le campagne, perché Diana era anche la luna e la luna era legata ai cicli stagionali e a quelli femminili.




Osservando meglio la scena, si vede a destra una donna in bianco che presenta al Dio un bambino paffutello ed il dio Pan pone la zampa sulla sua spalla, in segno di benedizione. Più in basso una donna disperata sembra fare lo stesso, ma il suo bambino è malato e scheletrito, ancora in senso antiorario vediamo una donna accovacciata vestita in giallo, colore della sacralità e da sotto al mantello spuntano le gambine scalcianti del suo bimbo, a destra una donna in bianco si dispera e dietro di lei giace il cadavere di un bimbo morto, per finire con l’anziana che regge l’asta su cui sembrano appesi dei bambini,  che tuttavia sono appena tratteggiati nella forma e molto più piccoli di dimensioni rispetto agli altri, non bambini dunque ma feti abortiti.



Insomma, quelle ai piedi del Dio Caprone non sono streghe divora-bambini, ma povere campagnole desiderose di essere madri e di proteggere, con antichi rituali, i loro bimbi dalle tragedie di un’epoca in cui la mortalità infantile, tra carestie ed epidemie, era ancora molto elevata.

domenica 19 dicembre 2021

Damigelle di corte

Las meninas o “le damigelle” è un quadro di Diego Velasquez dipinto nel 1656 e  conservato al Museo del Prado di Madrid.





L’opera 

Si tratta di un quadro di dimensioni notevoli, poco più di 3 metri di larghezza  per 2,70 di altezza. A sinistra  si vede il pittore stesso davanti ad una grande tela: Velasquez era un apprezzato artista alla corte di Filippo IV e  questo, che compare in “las meninas”, è da molti critici considerato il suo miglior autoritratto.







Al centro della scena con un abitino azzurro di seta, è ritratta Margherita, figlia di Filippo IV e di Marianna d’Austria, sposata da Filippo dopo la morte della prima moglie.

Margherita che all’epoca del ritratto ha circa 5 anni, è circondata dalle due damigelle d’onore intente a servirla, Donna Maria Augustina de Sarmiento e Donna Isabella de Velasco. Sulla destra compaiono i nani di corte, Mari Barbola e Nicolasito Pertusato, impegnato ad infastidire col piede un grosso mastino accucciato davanti a loro.

Dietro, appena riconoscibili si intravedono un uomo e una donna e sullo sfondo un uomo barbuto che, accennando un inchino, scosta la tenda di ingresso della stanza e viene  identificato con Jose Nieto, cerimoniere di corte di Filippo IV.




Ma cosa sta dipingendo Velasquez?

Molte ipotesi sono state avanzate su cosa stia rappresentando il pittore sulla tela che ha davanti. Non di certo la scena che vediamo noi, perché da quella angolatura vedrebbe i bambini di spalle. Inoltre il quadro sappiamo che si sviluppa in larghezza, mentre la tela che Velasquez ha di fronte è alta, ma non sembra larga.

Forse ritrae il re e la regina, che non sono presenti,  ma vediamo riflessi dallo specchio in fondo alla parete, tecnica già usata da Van Eyck nel Ritratto dei coniugi Arnolfini” per dare l’illusione allo spettatore di essere anche lui sulla scena, accanto ai due personaggi che vediamo riflessi dallo specchio.


Margherita d’Austria

Che ne è della bimba biondissima ritratta da Velasquez?

Alla morte della prima moglie, Filippo IV aveva sposato Maria Anna d’Austria, figlia di Ferdinando III, primo cugino di Filippo e della sorella di Filippo, Maria Anna di Spagna.

Da questo matrimonio era nata Margherita.

C’erano tutti i presupposti perché la forte consanguineità rendesse la salute della bimba alquanto cagionevole.

Promessa sposa di Lepoldo I d’Asburgo, che era suo zio e cugino, lo sposò nel 1666, all’età di 15 anni.

Margherita ebbe diversi figli, ma solo una bambina le sopravvisse: la consanguineità con il marito Leopoldo causò alcuni aborti e la morte prematura dei bambini, finché anche Margherita si ammalò. Gli storici parlano di un rigonfiamento alla gola, probabilmente un tumore tiroideo che compromise il suo fisico gracile e debilitato dalle continue gravidanze. Morì nel 1673, a soli 21 anni.


La pernice di Brugel

 Il quadro è conosciuto con il titolo di “la caduta di Icaro”, opera di Brugel , conservato al Museo Reale di Belle arti in Belgio. Per trov...